Nuove imprese e startup sono il futuro dell’Italia: ma il nostro paese è davvero pronto a questa rivoluzione culturale? Il tessuto sociale ed economico è adatto ad accogliere e sostenere le nuove attività?
Il Decreto Sviluppo, con il suo focus sulle startup, ha segnato “un passaggio culturale di valore storico”: nonostante le critiche, si tratta di una piccola rivoluzione per il nostro Paese e, anche se criticati com troppo stringenti ed esclusivi, i sostegni alla creazione d’impresa mettono nero su bianco la consapevolezza di un cambiamento significativo per l’economia italiana.
Quello che, tuttavia, non può che destare preoccupazione sono le fragilità dell’ecosistema italiano, causate da una burocrazia elefantiaca, una classe politica miope, una situazione economica precaria, un supporto delle startup composto da realtà che faticano a fare sistema. Già messo sul banco degli imputati dallo Startup Manifesto della Commissione Europea, la sensazione di un ecosistema fragile si fa certezza leggendo l’ultimo Global Entrepreneurship Monitor – programma di ricerca internazionale nato nel 1997 dalla collaborazione tra London Business School (UK) e Babson College (USA), in Italia grazie all’Università di Padova.
Il Global Entrepreneurship Monitor Il rapporto si concentra sul tasso di nuova imprenditorialità (TEA: Total early stage Entrepreneurial Activity – comprende l’imprenditorialità nascente delle startup e le nuove imprese fino a tre anni dall’inizio dell’attività) e mostra l’Italia in una situazione piuttosto critica. A parlare sono, come sempre, i dati. In particolare quelli che mettono a confronto la TEA nei paesi cosiddetti “innovation driven”, ovvero quelli in cui il sistema economico è maturo, le imprese sono basate su conoscenza e tecnologia e il settore dei servizi è sufficientemente espanso. Ebbene: l’Italia è penultima, davanti soltanto alla Grecia, in quanto a creazione di nuove imprese.
Poche opportunità e paura di fallire
Solo il 29% del campione italiano ritiene che esistano buone opportunità imprenditoriali (contro ad esempio il 65% in Svezia): i potenziali imprenditori hanno una percezione negativa del sistema economico. I fenomeni “frenanti” sono l’annosa questione burocratica e la questione fiscale: in un ecosistema rigido e soffocante sono in pochi a intravedere spiragli per un’avventura imprenditoriale.
E come non bastasse, interviene anche una questione culturale: il nostro Paese, fra tutti quelli “innovation driven”, è quello che mostra il tasso più alto (oltre il 57%) rispetto alla “paura di fallire”. Più della metà degli imprenditori, insomma, teme di non potercela fare. Da una parte il fenomeno è spiegabile con l’appena ricordata rigidità del sistema, ma dall’altra anche con la sanzione (legale e sociale) del fallimento: il rischio non fa parte della cultura dei più giovani e l’ambiente culturale in cui crescono non favorisce questo aspetto.
In Italia il fallimento è visto in modo molto negativo e come una macchia che impedisce a chi ne è vittima di riguadagnare credibilità. Il fallimento non è visto, viceversa, come un momento di crescita come avviene in altri Paesi che hanno di conseguenza anche una maggiore dinamica imprenditoriale.
Quali soluzioni?
La ricerca propone alcune possibili soluzioni al sistema-Italia: risapute, verrà da dire, ma che classe politica e imprenditoriale dovranno, prima o dopo, prendere in considerazione. Oltre a indicazioni relative alle politiche di governo – riduzione del carico burocratico, semplificazione e riduzione delle norme amministrative, riduzione del costo del lavoro – uno degli aspetti più volte sottolineato nella ricerca riguarda una sorta di “rivoluzione culturale” in Italia: rimettere al centro della discussione l’impresa, capace di sollecitare l’economia, creare posti di lavoro, favorire la mobilità sociale.
Secondo il GEM è fondamentale mettere in campo un’iniziativa di grande respiro finalizzata alla formazione all’imprenditorialità e alla cultura d’impresa: “l’istruzione a tutti i livelli può coltivare attitudini e aspirazioni imprenditoriali nei più giovani favorendo la propensione ad intraprendere una carriera imprenditoriale”. È quello che ci sta più a cuore, quando si parla di startup: “l’imprenditorialità può e deve essere coltivata”, conclude la ricerca.
Si chiama Startupover, è curato da un imprenditore, Andrea Dusi, e racconta piccoli e grandi flop aziendali: da quello di Segway, il monopattino elettrico che “avrebbe dovuto rivoluzionare il mondo dei trasporti”, al salvataggio di Airbnb, il sito per affittare casa o stanze ai turisti a lungo a rischio chiusura. “L’obiettivo – spiega – è creare una cultura positiva del fallimento: http://www.startupover.com